L'insostenibile leggerezza dell'età pensionabile.

L’insostenibile leggerezza dell’età pensionabile.
23/03/2015 Studio Incipit

Una lavoratrice del settore privato, oggi, può andare in pensione a 63 anni e nove mesi. La recentissima circolare Inps n. 63 del 20 marzo, applicativa di un decreto del Ministero dell’Economia sull’adeguamento dell’età pensionabile alla aspettativa di vita, annuncia che dal 2016, l’età richiesta sarà di 65 anni e sette mesi. Ai lavoratori maschi e alle lavoratrici pubbliche occorreranno 66 anni e 7 mesi.

L’adeguamento è il primo di quelli previsti dalla riforma Fornero che ha stabilito una cadenza triennale fino al 2019 e biennale successivamente . In realtà, l idea di agganciare l età pensionabile – una soglia stabile e ferma sin dal 1939 – alla durata media della vita non è una novità elaborata dal governo Monti ( intanto perché fu introdotta dalla riforma Sacconi nel 2011) ma il prodotto di un percorso lunghissimo che ha spostato progressivamente l asse concettuale della prestazione di vecchiaia fino ad arrivare a dove siamo oggi: la soglia di vecchiaia si misura – e dunque si sposta – in funzione di quanto la spesa pubblica è in grado di sopportare. Un percorso che era partito alla fine del XIX secolo, quando la vecchiaia era un rischio sociale, aveva attraversato il Fascismo, si era poi fatto diritto nella repubblica democratica, per approdare quale “capitolo di spesa” insostenibile, negli anni Novanta e fino ai giorni nostri.

Un percorso che credo valga la pena di ripercorrere, sia pure a grandissime linee.
Il modello più risalente di sicurezza sociale è quello prussiano:nella seconda metà dell’800, Bismarck introdusse l obbligatorietà dell’assicurazione sociale per ampie platee di lavoratori. “Senza sicurezza sociale il capitalismo non regge”, avrebbe detto il Cancelliere di Ferro. Che l attribuzione sia fondata o meno, è ininfluente: l’osservazione è del tutto coerente con le finalità del governatore prussiano che nel messaggio al Kaiser scrive “…la soluzione dei danni sociali va ricercata non soltanto nella repressione dei movimenti socialdemocratici, ma anche in positive iniziative per una migliore condizione dei lavoratori […] In questo senso, come prima cosa, verrà introdotta una legge per l assicurazione dei lavoratori contro gli incidenti sul lavoro […] Ma anche per coloro che per motivi di vecchiaia o di invalidità divengano incapaci di produrre sostentamento per sé stessi….” Il concetto stesso di assicurazione sociale germina dalla rivoluzione industriale e dal conflitto capitale-lavoro. La Storia non poteva conoscerlo prima e l’Europa contemporanea, in età post industriale, assiste, non senza smarrimento, al suo mutamento genetico che procede inesorabile, non soltanto per ragioni politico economiche, ma anche per macro mutamenti demografici: l aspettativa di vita in Europa, alla fine del XIX secolo, era di 50 anni in Scandinavia, scendeva a 45 in Inghilterra per precipitare a 39 in Italia e 32 in Spagna. A cosa poteva mai pensare Bismarck, quando immaginava lavoratori non più in grado di procacciarsi salario e sostentamento perché troppo vecchi per stare in fabbrica? Pensava ad un rischio, a probabilità bassa ed impatto elevato. E alla strategia, non costosissima, per limitarlo: risparmio forzato di lavoratori e datori di lavoro e un piccolo, minimo, contributo statale. Più che sufficiente per garantire la sopravvivenza a quel risicato 6 o 8 percento di popolazione miracolosamente sopravvissuta innanzitutto alla propria nascita e poi a morbilità, lavoro duro e insalubre, incidenti, cattiva alimentazione.

Il modello così creato sopravvive al mondo e alle ragioni che lo hanno generato e sbarca nel Novecento, modificandosi, evolvendosi, dalle nostre parti inciampando persino nella “tutela ed incremento della stirpe”, ma costruendo e implementando lo stato sociale. Tutto questo, comunque, senza staccarsi dalla sua radice, che è appunto il conflitto capitale-lavoro.
I nostri Costituenti, sessant’anni e due guerre mondiali dopo il Cancelliere prussiano, affermeranno che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. E’ un altro mondo, una visione totalmente differente, uno scenario nuovo rispetto alla gestione del rischio sociale di fine ottocento. Qui si parla di diritto in capo ai lavoratori e di una presa in carico dello stato. Complessiva e comprensiva. SI disegna una società in cui tutti i lavoratori hanno una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” e a coloro che lavoratori non possono (più) essere, fornisca obbligatoriamente un sistema di previdenza che assicuri “mezzi adeguati” . Lo scenario è mutato, ma le assi del palco sono rimaste le stesse: il conflitto capitale-lavoro. Il Legislatore avrà ancora a lungo in mente, quale attore in un tale sistema, il lavoratore dipendente (chi scrive è ahimè più vecchia delle leggi che introdussero l’ assicurazione obbligatoria per commercianti e artigiani e quando si prese a parlare di parasubordinati aveva già l’ età in cui la sua bisnonna poteva ben considerarsi al tramonto della vita) Un lavoratore dipendente occupato senza soluzione di continuità, preferibilmente alle dipendenze del medesimo datore, con un’esistenza libera e dignitosa e una vecchiaia – non più rischio, ma certezza o almeno alta probabilità – serenamente garantita dall’ essere stato un cittadino attivo in una repubblica fondata sul lavoro in cui l’iniziativa economica privata è libera, tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Ma quando può dirsi compiuto e assolto quel dovere, in assenza ovviamente di infortuni o cause di limitazione grave della propria capacità di lavoro? Appena raggiunta l età pensionabile. Ma qual è questa età? Sin dal 1939, 60 anni per gli uomini e 55 per le donne ( E tale resterà fino alla Riforma Amato del 1992). A quella data, il lavoratore ( dipendente di azienda ) o la lavoratrice con almeno 15 anni di contribuzione avevano il diritto al trattamento di quiescenza. Era un’età da nonni, una volta, non da rockstar al quarto matrimonio e un operaio di 60 anni aveva probabilmente iniziato a contribuire al progresso materiale della Repubblica già da molto tempo, così come la madre di coloro che lo avrebbero sostituito alla catena di montaggio, aveva fatto il suo per una quindicina di anni e poi smesso, magari all’arrivo del secondo figlio. Per costoro, fino al 1969, il calcolo della pensione era contributivo ( eh già, non è stata un’invenzione della Fornero o di Dini…. ), ma le pensioni che ne derivavano erano di importo spesso talmente basso ( basse retribuzioni, sistema di riscossione che non favoriva la lotta all’evasione né, talvolta, la completa e puntuale registrazione dei versamenti ) da non consentire sempre di raggiungere l obiettivo costituzionale di assicurare “adeguati mezzi per le necessità dell’esistenza”. Nel 1969 dunque, il sistema vira al retributivo e vengono introdotti tanto l integrazione al trattamento minimo quanto la pensione di anzianità. Da quell’epoca, il cambiamento di scenario si realizza. Fondale compreso. Il conflitto capitale-lavoro impercettibilmente ma inesorabilmente cede il passo al conflitto fra generazioni. Perché il sistema retributivo si fonda sul fatto che siano i giovani con la propria contribuzione a finanziare la spesa pensionistica. Che prende a diventare una delle voci più gravose della spesa pubblica. Non perché il sistema a ripartizione sia insostenibile in sé, ma perché la sua gestione è storia d’Italia: assistenzialismo, ricerca di consenso, creazione di nicchie di privilegio. Tutto si può fare e tutto si è fatto. Non soltanto ignorare le proiezioni demografiche, ma anche introdurre le baby pensioni dopo solo 14 anni sei mesi e un giorno di contribuzione, pensionamenti anticipati senza sufficiente copertura di intere categorie di lavoratori, supervalutazione della contribuzione per altre. In quegli anni spendere non è difficile, anche se irresponsabile: come si è detto, il sistema si regge sul fatto che i lavoratori attivi con la loro contribuzione finanziano i padri e le madri in pensione e, dal punto di vista demografico, i tantissimi nati negli anni ’50 e ’60 hanno raggiunto o stanno per raggiungere l età per entrare nel mondo produttivo. Quando i conti non tornavano, e non tornavano frequentemente non tanto per le integrazioni al minimo quanto per le pensioni medio alte e altissime , agganciate al reddito e non all’effettiva contribuzione versata, lo Stato faceva fronte alla spesa mettendo le mani in cassa.

Qualunque massaia potrebbe illustrare efficacemente come spendere sistematicamente più di quanto si introiti è gioco inebriante destinato però a durare poco e a finire male. E infatti il sistema collassa. Non soltanto a causa dello stato sociale, ovviamente. Siamo nel 1992, come dire corruzione, evasione fiscale, cattiva gestione e spesa pubblica fuori controllo. Neppure la contribuzione dei baby boomers ( fra i quali ci sono coloro che ai giorni nostri si ritroveranno “esodati” senza retribuzione né pensione) basterà a garantire il pagamento delle prestazioni e così comincia la lunga marcia legislativa, di rimedio in rimedio, da urgenza a urgenza. Un’ incessante e non sempre lungimirante ricerca di spalle su cui far gravare il peso di un sistema che ormai scricchiola in modo sinistro.

Le strategie si muovono su due direttrici: aumentare la contribuzione, diminuire la prestazione. Ovvero, incassare di più, spendere di meno. Ma a giudicare dall’escalation è legittimo dubitare che si sia riusciti a rimettere il sistema in equilibrio.
• 1992, la riforma Amato innalza l età pensionabile di 5 anni ( 65 per gli uomini e 60 per le donne) e a 20 anni la contribuzione minima necessaria. Conserva la pensione di anzianità per chi ha 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica.
• 1995, la riforma Dini reintroduce il sistema contributivo per le nuove generazioni, mantiene quello retributivo soltanto per chi può vantare almeno 18 anni di lavoro. Un sistema misto dei due sistemi di calcolo invece riguarderà coloro già produttivi a quella data ma da meno di 18 anni. Inoltre, chiama a contribuire chi, fino ad allora, non aveva alcun obbligo ( liberi professionisti senza cassa professionale, amministratori di srl ) . Quanto alla pensione di anzianità, quella cioè che fino a quel momento non conosceva il criterio dell’età pensionabile, viene costruito un complesso sistema per cui si renderà necessario un requisito di età e di contribuzione insieme, soggetto a progressivo innalzamento anno dopo anno.
• 1996 – la legge finanziaria amplia la platea degli obbligati al fondo pensionistico dei commercianti: in un mondo produttivo ormai “terziarizzato”, commerciante non può essere più soltanto il pacioso bottegaio degli anni ’60, ma anche tutti i titolari di imprese del terziario o i soci di srl commerciali.
• 1997 – si introducono le “finestre di pagamento” per le pensioni di anzianità: in pensione si va quattro volte l anno, non più il mese successivo al raggiungimento dei requisiti
• 2008 – finestre fisse anche per le pensioni di vecchiaia. E sistema delle quote ( età + contributi =96) per le pensioni di anzianità
• 2010 – 2011 – Le finestre si fanno mobili: non più quattro aperture predeterminate l anno ma un differimento di un anno per la liquidazione ( un anno e mezzo per i lavoratori autonomi). E anche l età pensionabile smette di essere un punto fisso nel complesso quadro: si prevede infatti che la stessa sia incrementata progressivamente in misura dell’ incremento della aspettativa di vita, così come si programma un percorso di innalzamento del requisito fino ad eliminare la differenza di genere. Secondo tale previsione, per le lavoratrici pubbliche i 65 anni sarebbero diventati requisito anagrafico sin dal 2012 mentre le lavoratrici private, con innalzamenti progressivi avrebbero raggiunto i colleghi maschi nel 2023.
• 2012 . Riforma Fornero. Abolisce la pensione di anzianità e le sue “quote” e fa sparire le finestre. Introduce la “nuova pensione di vecchiaia” e, in luogo di quella di anzianità, la pensione anticipata. Con la riforma, dal 1 gennaio 2012, il calcolo sarà contributivo per tutti. E l età pensionabile? La Riforma Fornero fa salva l introduzione dell’adeguamento progressivo in ragione dell’ incremento della aspettativa di vita, ma “accorcia” il percorso : si parte subito dai 66 anni per le lavoratrici del settore pubblico ( così come per tutti i lavoratori maschi) e dai 62 per le lavoratrici di quello privato che dovranno aver spento 66 candeline nel 2018 per collocarsi a riposo.

Per quanto solo accennato in estrema sintesi, mi auguro che l’elenco così come tracciato sia sufficiente a percepire come gli interventi legislativi si siano succeduti in questi ultimi anni, così numerosi e aspri, tanto da rendere legittima la domanda “ ma io, quando potrò andare in pensione?” o, soprattutto per le generazioni più giovani “ma quanto varrà la mia pensione”?
Ora, l’incertezza, la difficoltà o l’impossibilità di pianificare il proprio futuro, o anche solo di immaginarlo e prospettarlo, limita drasticamente la percezione di sicurezza e la libertà di fare delle scelte e riduce ad una condizione di precarietà rispetto al proprio ruolo e identità sociali. Una sorta di espulsione che riguarda tutti, giovani e anziani. Anche se le vie intraprese finora sono tali da mettere le nuove generazioni in conflitto con le vecchie.

Allungare l’età pensionabile, misurarla sulla durata dell’intera vita, mettere in equilibrio tutte le stagioni- la formazione, il lavoro e la quiescenza – non è sbagliato in sé. E’ addirittura necessario, date le condizioni, e sarebbe doveroso se invece che di una generazione a cui far pagare il conto ci fossimo posti alla ricerca di una società solidale, capace di figurarsi armoniosamente l avvicendamento delle generazioni e il mutuo sostegno e capace di garantire davvero esistenze libere e dignitose e adeguati mezzi alle necessità della vita.
Se davvero l ha detto, Bismark non aveva torto: era il capitalismo che si reggeva sulla sicurezza sociale, il liberismo della finanza non sa che farsene.

Studio Incipit